Recentemente ho letto un articolo dal titolo piuttosto bizzarro:
“Personal Decisions are Leading Cause of Death”*, cioè “Le scelte individuali sono la principale causa di morte”.
Mi sono trovato a fare la stessa faccia di Verdone: “In che senso?”
Preso dalla curiosità ho approfondito l’articolo, il cui titolo è sicuramente provocatorio, ma i suoi contenuti meritano una riflessione.
Partendo dall’inizio del 1900 e arrivando ai primi anni del 2000, lo studio individua tra le cause di morte ufficialmente dichiarate dagli uffici statistici nazionali** quelle che, direttamente o indirettamente, possono essere attribuite a cattive decisioni.
Il risultato della stima è abbastanza impressionante:
- nei primi anni del 2000 circa il 45% delle morti dei “Sapiens”*** può essere ricondotto all’effetto di cattive decisioni: incidenti automobilistici dovuti a errori del guidatore, malattie cardiache o tumori connessi a stili di vita non sani o ad agenti inquinanti derivanti da modalità produttive e di consumo letali;
- tale percentuale nei primi anni del 1900 è pari al 5%!
Lo studio a questo punto si pone una domanda: cosa sarà mai cambiato dal 1900 al 2000 per giustificare un simile incremento?
La riduzione a uno è impossibile. I fattori come al solito sono molteplici, ma i ricercatori affermano che sicuramente l’elemento che ha influito di più è che il mondo di oggi è globale e interconnesso, per cui le opzioni disponibili per decidere come vivere le nostre vite sono diventate molteplici.
In altre parole, data la sovrabbondanza di opzioni a disposizione, facciamo fatica a vedere con chiarezza le potenziali conseguenze future delle nostre azioni presenti.
Queste ultime, infatti, più o meno 100 anni fa erano:
- ridotte di numero;
- più semplici;
- in buona parte indirizzate dagli Stati.
Oggi invece esse sono:
- multidimensionali;
- articolate;
- e difficili.
Perché questa miopia, quando invece abbiamo così tante informazioni a cui accedere direttamente?
Per la stessa ragione per cui alcuni di noi non riescono a resistere alla tentazione di chiudere il pasto serale con un dolcetto: non vediamo ancora l’aumento del peso che avremo per il suo consumo né l’esercizio fisico necessario per recuperare il peso forma.
La stessa cosa succede agli italiani che hanno una forma di previdenza integrativa e che si ostinano a destinare il proprio patrimonio in larga parte nei comparti garantiti, nonostante abbiano ancora 10, 20 o 30 anni di orizzonte di investimento prima di andare in pensione.
Questo dato mi ha sempre colpito, ma a maggior ragione dopo aver letto questo articolo sono stato spinto a fare una riflessione. È ovvio che non sto assolutamente dicendo che questa decisione sia una delle potenziali cause di morte citate nell’articolo, quanto piuttosto che anche questa specifica scelta fa parte della famiglia di quelle poco sensate ed esprime tutta la difficoltà di decidere in maniera oculata.
Utilizzare un comparto Garantito**** può avere un senso quando sei vicino al momento di andare in pensione, oppure nei casi in cui la legge ti obbliga a farlo (ad esempio se il datore di lavoro non ha raccolto un consenso tacito dal lavoratore al trasferimento del TFR). Invece, detenere circa il 41% delle risorse accantonate nella previdenza complementare in Italia in comparti garantiti, mi sembra un fenomeno di tutt’altra natura. Anche perché più del 70% degli iscritti ha un’età inferiore ai 54 anni.
La Covip*****, lo scorso 25 maggio, ha pubblicato i rendimenti aggiornati alla fine del 2021 dei comparti dei diversi fondi di previdenza. Ho colto la palla al balzo e mi sono messo a fare una comparazione.
Dall’analisi di tutti i comparti:
- Garantiti (75 comparti),
- Bilanciati (86 comparti),
- Azionari (53 comparti);
al 2021, a 3 anni, a 5 anni, a 10 anni e 20 anni,
si evince come la scelta prudente delle linee garantite sia stata sempre meno conveniente negli anni:
In altre parole, chi ha deciso di versare in un comparto Garantito:
- 20 anni fa, rispetto ad uno Bilanciato o Azionario ha avuto un mancato rendimento medio annuo che varia dal 1,2% all’1,5%;
- 10 anni fa, tale differenza, è salita dal 3,5% al 5,4%;
- 3 anni fa è salita ancora dal 5,1% al 9,2%.
Quest’anno, almeno sino ad oggi, chi ha sottoscritto un comparto garantito è sicuramente contento della propria scelta e pensa: “Visto? Ho fatto bene a proteggere i miei risparmi!”.
Peccato che, allargando lo sguardo, diventa palese che aver sottoscritto un comparto Garantito come forma di accantonamento di risparmio pensionistico 5, 10 o 20 anni fa, non ha fatto altro che fare in pratica un PAC sulla liquidità o quasi.
E il manuale delle “giovani marmotte” dell’investimento (anche previdenziale) generalmente lo sconsiglia, vero?
Perchè:
- Un tempo congruo (10, 20 o 30 anni sono tempi congrui) riduce il rischio dell’investimento e permette di cogliere rendimenti più interessanti. Le probabilità che strumenti molto volatili come le azioni registrino risultati negativi dopo 10 anni sono molto basse, ancor meno a 20 e 30 anni;
- L’entrata frazionata degli accantonamenti permette di mediare i prezzi di carico. Ed è proprio nei momenti negativi che, accumulando più quote, si migliorano ulteriormente le probabilità di avere alla fine del periodo un risultato positivo dall’investimento;
- Oggi il sistema nel suo complesso sta puntando ad una rendita lorda media per iscritto di 500 euro al mese (vedi https://goalbasedinvesting.it/previdenza/), troppo bassa per pensare di avere una serena seconda giovinezza.
Parlando di conseguenze future delle nostre azioni, è come se gli investitori al momento della sottoscrizione avessero in animo di acquistare un cucciolo di alano, che crescendo sarebbe diventato grande, grosso e buono per difenderci, mentre dopo 10 anni scoprono di avere un piccolo chihuahua.
Un chihuahua che, vista l’inflazione attuale e attesa, potrebbe diventare ancora più piccolo e stare tranquillamente nel taschino della nostra giacca!
*https://www.jstor.org/stable/25580892
**I dati presi in considerazione sono quelli degli Stati Uniti, ma il ragionamento può essere esteso anche all’Italia o altri paesi.
***Homo Sapiens (Linnaeus, 1758; dal latino «uomo sapiente») è la definizione tassonomica dell’essere umano moderno.
****Comparti che prevedono la restituzione del capitale versato o la corresponsione di un rendimento minimo.