“Non c’è una seconda occasione per fare una buona prima impressione” scriveva Oscar Wilde.
È proprio vero! La classificazione rapida delle persone è una trappola micidiale. Dopo che si viene incasellati in una categoria è molto difficile spostarsi in un’altra.
Ricordi come ti sei preparato prima di incontrare i tuoi futuri suoceri per la prima volta? O quanto ti sia impegnato i primi giorni di un nuovo ciclo scolastico? Impariamo fin da piccoli che questo meccanismo, se non gioca a nostro favore, può rivelarsi molto sdrucciolevole!
Infatti, gli effetti collaterali di una prima impressione sfavorevole sono che:
- verranno isolate solo le informazioni a conferma della prima impressione avuta;
- si prospettano tempi di profezie autoavveranti.
Qualche tempo fa ho conosciuto Francesco, un cliente che, a prima vista, mi è parso particolarmente irascibile. In questo caso il pensiero automatico che mi è scattato è stato:
- Francesco si arrabbia spesso. È irascibile.
- Dove sta la sua irascibilità? Nel suo carattere e quindi nella sua mente.
- Perché la sua mente è fatta così? Non saprei, ma io guardo ai suoi comportamenti.
- Qual è il suo comportamento? Francesco si arrabbia spesso.
Valutare una persona con il pilota automatico comporta il rischio di costruire un rapporto esattamente così come lo abbiamo pensato all’inizio.
Si tratta di un cortocircuito difficile da spezzare che, ad onor del vero, i bravi consulenti imparano ad evitare o a gestire.
Sarebbe opportuno, in effetti, non dare per scontato che:
- un comportamento osservato del tuo cliente sia un tratto stabile del suo carattere;
- i comportamenti successivi siano diretta conseguenza di quel tratto caratteriale ipotizzato.
La pazienza nell’esprimere un giudizio o la capacità di sospenderlo è, quindi, una di quella caratteristiche che evidenzia la qualità principe di un consulente esperto di relazioni umane: conoscere la non aderenza tra la realtà effettiva e quella percepita.
Ti porto un esempio. Immagino tu ti sia specchiato più volte nella vita. Ma quanto è reale quell’immagine?
Un piccolo gesto può aiutarti: quando lo specchio del bagno è appannato dal vapore, disegna un cerchio intorno al viso, misurandone a spanne la dimensione. A questo punto confrontala con la misura reale del tuo viso. Ti sei accorto che l’immagine dello specchio è circa la metà della dimensione reale del tuo viso?
Che esperimento bizzarro! Siamo così abituati a vedere la nostra immagine allo specchio, da pensare che essa corrisponda esattamente alla realtà, mentre è solo una percezione di essa.
Ovviamente la propensione ad ordinare le persone non è mai a senso unico. Così come noi siamo tentati di incasellare i clienti, così anche questi ultimi sono tentati di farlo nei nostri confronti.
Ricordi i primi giorni di scuola? Non erano solo gli insegnanti che cercavano di sistemarci in una categoria (“bravo”, “potrebbe fare di più”, “asino”…), ma succedeva anche viceversa. Noi stessi cercavamo di “mettere i bordi” a quella di italiano, di matematica o di inglese il prima possibile.
Il cliente spesso, quando si rivolge ad un consulente (di qualsiasi materia) parte da un assunto molto semplice: il consulente è quella persona che risolverà il mio problema con soluzioni pratiche e definitive. Non importa se il professionista è un notaio, un esperto di reti o un consulente finanziario. La persona scelta sarà in grado di fornire una soluzione pratica e definitiva.
Purtroppo, però, nel mondo finanziario non è quasi mai possibile fornire soluzioni definitive. È molto difficile, ad esempio, dire come andrà in futuro uno specifico investimento, soprattutto nell’arco temporale che in genere interessa i clienti. 😉
Ecco così che si ritorna al tema iniziale della “prudenza”. Quando si incontrano i nuovi clienti è necessario prendersi del tempo per chiarire il nostro modo di lavorare, per conoscersi e per cominciare a stabilire un rapporto “naturale”. Per “apparire naturali” intendo dire che si deve assumere la prospettiva del nostro nuovo cliente, comprendere il suo punto di vista.
In questi anni, con lo spirito di Sherlock Holmes , ho guardato alla pratica, parlando con decine di consulenti. Ho notato che l’impostazione della normativa sulla consulenza finanziaria, la MIFID e l’applicazione pratica del suo questionario, hanno probabilmente favorito una “forma mentis”.
La tendenza diffusa è quella di immagazzinare nella prima intervista informazioni su aspetti molto vari come:
- la famiglia;
- il patrimonio;
- la tolleranza al rischio;
- i bisogni o obiettivi di vita.
L’intento finale è identificare un quadro di insieme dei bisogni, del profilo di rischio del cliente in modo da definirne poi una tutela successiva.
Sappiamo tutti però che le domande del questionario MIFID spesso non sono sufficienti a definire un chiaro quadro d’insieme. Di conseguenza tutti i consulenti fanno domande aggiuntive.
Seguire questo processo ha il “plus” di essere chiaro e codificato.
D’altro canto, il “minus” raccontato dai consulenti è che spesso non si riesce ad andare in profondità sui bisogni reali e sugli obiettivi di vita del cliente. E questo aspetto negativo diventa particolarmente critico nella fase in cui le prime impressioni si formano e possono influenzare l’andamento del rapporto futuro.
Per essere più esplicito ti porto ad esempio le domande che spesso i consulenti pongono ai clienti per parlare di bisogni e obiettivi di vita:
- Ha figli? È sposata/o? (conoscere la situazione familiare);
- Ha fatto degli investimenti? Quanti immobili possiede? (conoscere la situazione finanziaria e patrimoniale)
- Quali sono i suoi obiettivi? Cosa vorrebbe ottenere con i suoi investimenti? (capire i bisogni o gli obiettivi)
Ora converrai con me che chiedere: “Ha figli? È sposata/o? Che mestiere fa?” è cosa diversa dal chiedere: “Quali sono i suoi obiettivi? Quali sono i desideri che vorrebbe realizzare?”…
Eppure tutte queste domande hanno un’impostazione, che potrebbe anche essere stata influenzata dall’applicazione del protocollo MIFID, ovvero:
dare per scontato che l’investitore conosca già le risposte e quindi ottenerle, a valle di una domanda, sia un processo del tutto naturale.
Questa presunzione però, a mio avviso, non aiuta affatto il processo di “scoperta”!
Come una profezia che si autoavvera, potrebbe accadere questo nella pratica:
- il cliente, infastidito da una domanda che presuppone obiettivi/desideri chiari nella propria testa, si rifugerà in una risposta vaga e/o elusiva;
- il consulente, vista la risposta non esaustiva alla domanda sugli obiettivi, penserà che il cliente non abbia obiettivi e si comporterà di conseguenza.
Ricordiamoci sempre però che il nostro viso non è il viso che vediamo allo specchio!
Per questa ragione avrebbe senso dividere le domande della tua intervista, equilibrando quelle con lo scopo conoscitivo con quelle che mirano a scavare, a far riflettere e andare più in profondità.
Saranno proprio queste ultime che ti aiuteranno a non dare per scontato nulla.